Lou Reed. Il dovere dell’immortalità
Lou Reed, classe 1942, non c’è più. Non è certo un figlio della GX, ma è stato un parametro con cui tale generazione si è dovuta confrontare. Un maestro di stile musicale, una di quelle vette che entrano nella storia del rock, non dalla porta principale o di servizio, ma dalle stesse coscienze culturali ed estetiche di chi l’ha ascoltato e tuttora lo fa. L’immortalità non è un dono dei posteri, ma un dovere. I Pink Floyd, i Rolling Stones, e tutti coloro che hanno creato gli anni Settanta, disgregando le illusioni perbenistiche del decennio precedente, sono stati condannati alla vita eterna, da conquistare in due modi. O morir giovani, oppure trascinando all’infinito corpi profanati dal tempo. Se Brian Jones (1942-69), Jimi Hendrix (1942-70), Janis Joplin (1943-70), John Lennon (1940-80), Freddy Mercury (1946-91), Kurt Cobain (1967-94), ecc. hanno avuto la fortuna di restare nelle nostre memorie così com’erano quando sono passati oltre, per Sir Michael Phillip ‘Mick’ Jagger non è la stessa cosa. Però si può muovere su un palco, a 70 anni, come se avesse 20, e fingere che le rughe non liftate siano un segno di stanchezza e non di soluzione ineluttabile. Lo so, lo so: da noi ci sono epigoni senili, però un conto le melodie patetiche – al massimo da esportare in Argentina, Germania e Giappone – un altro la musica in sé. Se Jagger, invece, non è ridicolo nell’arrancare rifacendo il verso a sé, stella senza epoca, le ragioni oltrepassano razionale e buon gusto, e tracimano nel delta dell’Arte.
Fan disperati vedono Elvis Presley e Jim Morrison nascosti da qualche parte. Tentativo inutile e sciocco. Quei due non possono essere morti: sono vivi e basta, come Lou Reed. Essi scompariranno solo quando l’ultimo GX esalerà il respiro finale, poiché è scritto che la generazione a seguire “cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno” (Lc, 11, 29).
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