I Beatles. Horror vacui vittoriano
Se il testo di Yellow submarine lo cantasse, tradotto in italiano1, il bravo Pupo, gli intellettuali di ogni risma lo crocifigerebbero quale caricatura vivente dell’occaso occidentale. Una più che coetanea di una grande città italiana del Nord, facente parte della sinistra chic – plagiaria in ritardo dei vari Browder, Tito e Chruščëv e delle altre caricature (loro sì) che hanno affossato il movimento di classe – mi disse che per loro giovani (di una volta) i Beatles rappresenta(va)no la dimostrazione di un mondo nuovo all’orizzonte di riscatto palingenetico-sociale. Non ho mai saputo se la tizia quel giorno fosse espressione di sé dalla nascita, oppure avesse bevuto un 33 cl di cocacola andata a male. Dato che il maggior condizionamento psichico che attualmente l’Europa sta subendo dagli Stati Uniti si chiama politically correct o colonialismo politico-culturale, è ben pericoloso dissentire dal coro filisteo dei peana e del sollucchero fra trenodie e patetici ricordi di un passato anni Sessanta/Settanta che alla demonizzazione di un Tolkien di contro innalzava altari alla pochezza canora, quale estetica comparata ai processi di produzione capitalistica.
Per cui nel sollevare la dissertazione sul complesso britannico denominato The Beatles voglio innanzitutto significare una valenza superiore da parte di cantanti italiani (Giorgio Consolini, Natalino Otto, Fred Buscaglione, Orietta Berti, ecc.), i quali ebbero solamente il torto di anticipare in meglio quei temi, ma nella ‘povera’ lingua italiana.
Inoltre è il caso di soffermarci sul termine ‘complesso’. Odiosa parola in voga negli anni Sessanta, sul successo dei Rokes, atta a definire un insieme vocalizio-strumentale, mirato ad emettere suoni indistinti e vocaboli incomprensibili (ma graditi) alle masse, nonché testi distraenti la classe operaia e disturbanti l’orecchio cólto.
Col tramonto della lingua italiana, si sostituì ad essa il vocabolo anglosassone band. Esso – richiamante l’ensemble di strumenti musicali storici – era inteso a plasmare il concetto ‘classico’ con quello ‘commerciale’. Da qui il rifiuto di seri musicisti italiani (Napoli Centrale, PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Liftiba, Stormy Six, o Claudio Lolli, per citare l’unico grande autore e poeta boicottato dai mass-media) di adottare etichette simili, e quindi respingere l’omologazione imposta dalla Casa Bianca e dal Foreign Office, e al contempo marcare l’originalità dell’elemento italiano nella storia del rock. Tentativo respinto dalla sinistra revisionista, il quale preferì il vuoto dei Beatles al suddetto elemento rivoluzionario-innovativo nella musica italiana, cercando di oscurare Pink Floyd, Rolling Stones, ecc., per far spazio a innocui elementi caserecci e/o d’importazione. Passiamo ancora ai Beatles. Riandiamo alla tonalità orecchiabile del predetto idiota Yellow submarine2, oppure di Obladi Oblada (con relativa sciocca risatina di sottofondo), Hey Jude, Let it be – queste ultime comunemente pronunciate in alcuni circoli musicali italiani “Ehi ciuccio!” e “Lady B” (cioè non da serie A). A queste ultime si intrecciavano il ritornello becero; il rimario romanticistico à la Lorenzo Stecchetti (1845-1916); l’intimità micro-borghese di ridanciane parrucchette ebeti; l’eleganza baronettale ye ye su carnascialeschi abiti tipo rivoluzione culturale cinese; suffissi all’amore/cuore, soli simboli che la memoria tramanda ai posteri. Neotitoli proferiti sotto voce, se non si voleva essere emarginati (o perdere il posto di lavoro) in ambienti quali case discografiche, Rai, o malvisti come ‘diversi’-non omologati anche in aziende, uffici della pubblica amministrazione, partiti, industrie private, ecc.
Nello scrivere tal contributo mi appello a quelli che a distanza di quasi otto lustri sono restati sempre immuni dal ricatto sociologico del ‘bei-quei-tempi-smo’ o dello storicismo alla rovescia. Posso invece comprendere altri ai quali, per esorcizzare la morte, basti infilare un 45 giri nel mangiadischi… ma che dico! un dvd nel riproduttore, anche se il laser dovrebbe far capire ch’è già trascorso tanto di quel tempo. Va bene: nulla da eccepire.
Ciò ch’è invece riprovevole sono le lobotomizzazioni nei confronti dei giovani, con la sostituzione del vuoto musicale di oggi, col quel vacuo di ieri. Quando ad un/un’adolescente s’impone il mýthos dei Beatles, gli/le si somministra ipnopedicamente (ma in un inganno palese) un prodotto ch’era già il frutto di un capitalismo alla ricerca di cure alla sua dismorfofobia strutturale e sovrastrutturale.
L’operazione chirurgica è dettata dai brevissimi cicli di interpreti/cantanti costruiti al computer (Take that, ecc.), che non dànno garanzie di continuità ai profitti delle case discografiche, se non per il periodo stabilito dal règime del software. Di conseguenza la ‘tranquillità’ offerta dal passato, consente ai discografici le relative entrate, poi rinvestite nell’acquisto o nella progettazione/elaborazione del succitato software sufficiente a sfornare posticci sembianti, in fasi ad intervalli consecutivi ed incessanti. La costante è la necessaria figura umana, e la variabile diventa il modo in cui la figura stessa si trucca o si veste a seconda dei casi – look, arrivi all’aeroporto, concerti, interviste, apparizione/spettacolo televisivo, scatto combinato con il paparazzo di turno; annuncio di ritiro, morte e resurrezione del divo in paradisi da lui scelti dove finalmente vive in pace, lontano dai fan.
L’interprete/cantante può essere riportato in vita produttivamente quando l’industria cinematografica (o dei gadget) oppure – spesso – televisiva, intravede in lui/lei una reminiscenza di massa (tipo l’espressione del/-la bravo/a ragazzo/a, o del buon padre di famiglia). Così lo riesuma anche dal punto di vista musicale, riciclato dall’etere e dirottato in spettacoli per l’utente medio (in specie nel target pensionati o casalinghe). In Italia annoveriamo casi emblematici, fra il volgare ed il sentimentalistico, su cui è meglio stendere terra pietosa; e peggio ancora, fa orrore ascoltare adolescenti che fischiettano e canticchiano canzoni che gli stessi genitori ritenevano già sorpassate una generazione prima.
In conclusione la ‘fama’ dei Beatles riposa nell’unicità di un caso: i quattro sono stati disseppelliti non per meriti musicali, ma in guisa di carbone richiesto dalla locomotiva del danaro e dello sfruttamento discografici, basati sui i loro trascorsi gorgeggi sanremiano-castrocareggianti e non in un successivo stadio ‘partenogenetico’, tanto per dirla eufemisticamente.
Tra l’altro lo stesso John Lennon, mente lucida e calcolatrice del gruppo – checché ne dicano gli incensieri ufficiali e i preposti alla sua ‘canonizzazione’ pure già olimpico-torinese – scrisse a Paul McCartney & Signora, Ltd.:
Davvero voi pensate che la stampa sia sotto di me e di voi? Lo credete sul serio? Ma chi pensate che siamo, noi e voi? […] Fottuto inferno, Linda, tu non stai scrivendo per Beatle Book!!! Io non mi vergogno dei Beatles, ma di parte della merda che abbiamo preso per farli tanto grandi. Pensavo che tutti sentissimo in questa maniera, con gradazioni variabili, ma non è così. Voi davvero ritenete che la maggior parte dell’arte di oggi sia nata a causa dei Beatles? Non posso credere che siate così pazzi – Paul – Ne sei convinto pure tu? Quando smetterete di crederlo, potreste svegliarvi!3
Ossia la conferma di quanto osservato da David S. Landes:
Per quanto riguarda le nuove tecnologie e manifatture, nuove opportunità di lavoro andavano schiudendosi in branche minori. Lo storico economico di Cambridge J.H. Clapham ha sostenuto che tale passaggio fosse normale: via via che determinati settori chiudono la gente passa a qualche occupazione in via di espansione, diciamo la produzione di cioccolata o l’ingresso in un coro. Queste parole furono pronunciate nel 1942; se avesse potuto vedere il futuro, avrebbe parlato dei Beatles4.
“You say you want a revolution […] / We all want to change the world / But when you talk about destruction / Don’t you know that you can count me out / Don’t you know it’s gonna be all right”5 non la cantavano loro? Sì, era Revolution, il retro di Hey Jude. Guitti dell’avanspettacolo ‘postmoderno’: veicolatori del Sessantotto per iniziare a far dimenticare i canti partigiani paterni.
Uniche vittime? Parte della progenie che crede ancora alle menzogne dei genitori.
Note:
1 Nella città in cui sono nato, viveva un uomo che in mare ha navigato / E ci ha raccontato della sua vita, nel paese del sottomarino / Così abbiamo navigato fino al sole fino a che abbiamo trovato il mare di verde / E siamo vissuti sotto le onde in nostro sottomarino giallo / Viviamo tutti in un sottomarino giallo, Sottomarino giallo, sottomarino giallo [ripetuta ben otto volte!!!]/ /[rit.]/ E i nostri amici sono tutti a bordo / Molti di loro vivono alla porta accanto / E la banda inizia a suonare / [rit.] / [rit.] / Poiché viviamo una vita facile / Ognuno di noi ha tutto ciò di cui ha bisogno / Cielo blu e mare di verde / Nel nostro sottomarino giallo / [rit.] / [rit.] / [rit.] / [rit].
2 Famosa anche per un melenso e ridicolo cartone animato, infantile nella peggior accezione del termine, che la Rai, giustamente, trasmetteva nella Tv dei Ragazzi: cosa di certo infattibile per The Wall.
3 La Stampa, 26 ottobre 2002.
4 David S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti, Milano, 3ª ed. ampliata: settembre 2002, p. 481.
5 Tu dici che vuoi una rivoluzione […] / Tutti noi vogliamo cambiare il mondo / Ma quando parli di distruzione / Non lo sai che puoi contare su di me / Non lo sai che andrà tutto bene.
Iscriviti al gruppo dei sostenitori per accedere ai contenuti extra