Africa, tra colpi di Stato, golpisti e stabilità
Sin dal liceo – quando noi ragazzi ascoltavamo i radio-telegiornali o leggevamo i quotidiani che parlavano di colpi di Stato dell’esercito o rivoluzioni militari in tutte le parti del mondo – restavamo colpiti da un fenomeno del tutto particolare. Mentre in Europa, America meridionale, Asia e in alcuni Paesi dell’Oceania erano gli ufficiali superiori (maggiori, tenenti-colonnelli, colonnelli) e generali a prendere il potere, in Africa le cose non andavano così. È impensabile che nell’universo bianco-giallo, graduati di truppa (caporali), sottufficiali (sergenti) o ufficiali inferiori (sottotenenti, tenenti e capitani) si rendano protagonisti di azioni d’importanza pubblica o, nientemeno, si attribuiscano le leve del comando nazionale.
In Africa subsahariana – cinquantun anni fa, a partire dal 13 gennaio 1963 – furono invece tali soldati a iniziare a scrivere un capitolo del tutto nuovo nei rapporti fra militari e potere, e proprio in un Paese che, al contrario dell’allora Congo-Léopoldville1, apparentemente risultava stabile. Il Togo fu teatro del primo colpo di Stato in Africa. Un gruppo di veterani togolesi della Legione straniera francese – che avevano combattuto in Indocina ed in Algeria – comandati dal sergente ventiseienne Étienne Eyadéma (poi Gnassingbé Eyadéma) destituì e uccise il Presidente Sylvanus Epiphanio Olympio (1902-63), che si opponeva al loro arruolamento nell’esercito nazionale.
Successivamente, il Comitato insurrezionale, diretto dal sergente maggiore trentacinquenne Emmanuel Bodjollé nominò Presidente il leader dell’opposizione Nicolas Grunitzky (1913-69; di padre tedesco-polacco e madre togolese). Tra l’altro fu il primo caso imbarazzante cui si trovò di fronte l’Organizzazione dell’Unità Africana (dal 9 luglio 2002, Unione Africana) ancor prima della propria fondazione il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba.
Voler descrivere nei particolari la storia dei colpi di Stato africani risulterebbe forse di arduo compito. Possiamo comunque stilare un’agile schema sintetico a seguire.
Africa: colpi di Stato, rivoluzioni e rivolte condotti con successo
[a] Al momento dell’ingresso nell’OUA, Tanganica (ind. dal 9 dic. 1961) e Zanzibar (ind. dal 10 dic. 1963) erano separate, si unirono il 26 aprile 1964 dopo dando vita alla Tanzania, e Zanzibar ritirò il proprio seggio. Il Tanganica era membro dell’ONU dal 1961, e Zanzibar dal 1963 sino all’unificazione.
[b] Proclamata il 28 febbraio 1976 dal Frente Popular para la Liberación de Saguiat el-Hamra y Río de Oro (Fronte POLISARIO, allora appoggiato dall’Algeria). Il 22 febbraio 1982 la RAD del Sahara fu ammessa come 51° membro dell’Organizzazione per l’Unità Africana con 26 voti su 50.
Fra i 54 Paesi del Continente – oltre a Sahara Occidentale e Zanzibar (ex Stato indipendente) – si nota come ben venti di essi siano stati immuni da tali violenti mutamenti di governo, creando una continuità istituzional-costituzionale fra gli esecutivi delle indipendenze sino ai giorni nostri. Essi sono: Angola, Botswana, Camerun, Capo Verde , Eritrea, Gabon, Gibuti, Kenya, Malawi, Marocco, Maurizio, Mozambico, Namibia, Senegal, Sudafrica, il giovane Sudan Meridionale (almeno per adesso), Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.
Se vogliamo, però, analizzare con più attenzione una stabilità che non abbia affatto provocato scontri interni, rivalità di vertice o fra etnie – spesso sanguinosi e forieri di lunghe dispute armate oltre che veri e propri conflitti con i vicini (il caso della guerra civile 1975-2002 nell’Angola indipendente è emblematico) – di questi venti saltano all’occhio i casi di Namibia e Botswana. In un momento in cui il Continente è posto fra rivolte (Libia, Tunisia, Egitto), guerre palesi o latenti (Rep. Cenfrafricana, Costa d’Avorio, Mali, Somalia, i due Sudan), scontento di strati della popolazione (Sudafrica e altri), i due Paesi si ergono ad esempi di democrazia, rispetto della Costituzione e civile coesistenza, e meglio aiutano a intendere che pure in Africa è possibile perseguire modelli di comportamento istituzionale condivisibili.
Al contrario, gli ufficiali inferiori, i sottufficiali e persino i graduati di truppa africani hanno attuato svolte e cambiamenti epocali relativi alla storia dei propri Stati. Diversamente, ad esempio, dell’America Latina, ove l’elemento militare (caudillismo) è a fondamento della nascita di molti dei Paesi stessi, e le influenze del Nord hanno marcato gli anni Settanta ed Ottanta, facendo riferimento sempre ai vertici degli Stati Maggiori – in terra africana, gli ufficiali generali e superiori erano figure “fabbricate” in larga parte dagli ex colonizzatori e dalle loro scuole (in primis: Regno Unito e Francia). Tali alti ufficiali, perlopiù nel secolo scorso, si manifestavano in guisa di mantenitori dello statu quo che consentiva loro di attingere a garanzie di scalata nella nomenclatura militare e a privilegi ad essa conseguenti2.
Per quanto riguarda invece le politiche dei giovani soldati al potere, era necessario creare ed esaltare innanzitutto esigenze nazionalistiche le quali raccogliessero il maggior sostegno popolare possibile, anche se tali spinte erano spesso infarcite da meri retorica e simbolismo. Capitani, tenenti, sergenti e caporali che assumevano il comando dello Stato non erano molto versati in relazioni estere, al contrario dei propri predecessori civili. E quando capitava di raffrontarsi nell’agone internazionale essi replicavano impetuosamente, sia attraverso forti discorsi ufficiali, che “minacciavano” le allora pietre miliari del bipolarismo (Stati Uniti e Unione Sovietica) di mutare versante, oppure confermavano un equilibrio fra i due molto più credibile del pendolarismo dei Non-Allineati. Il governo militare dei giovani ha rappresentato, e rappresenta, la visione personalistica del leader di turno, che magari era (è) opposta a quella di altri componenti della giunta che a loro volta lo rovescia(va)no (il caso Sankara è in sé da manuale). Mentre nello scontro fra i movimenti politici africani è l’elemento etnico la base fondante, nel “partito” militare – che lega attraverso il mestiere delle armi e non la razza – è il camarillismo che divide e non garantisce continuità nell’àmbito delle stesse Forze Armate.
In definitiva, la retorica nazionalista in pochi casi è stata seguita da cambiamenti strutturali, e i giovani ufficiali, quando non abbattuti e/o uccisi, si sono omologati ad esigenze geopolitiche di scenario.