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L’Uomo Nuovo e l’arte

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Spesso accade che – circondati da brutture e volgarità di un’ipocrita ed estetizzante visione massmediatica – ci sfuggano riferimenti fondamentali dell’arte del Novecento dai quali quelle forme traggono origine. Una di queste è il realismo socialista, che fa da contraltare alla grandiosità delle opere d’arte e architettoniche sovietiche del primo periodo. Ha scritto Alessandro De Magistris:

Pochi momenti dell’architettura e dell’urbanistica del XX secolo invitano lo studioso a cimentarsi sui molteplici versanti della ricerca storiografica come gli anni del potere staliniano: un periodo fondamentale nella formazione della società sovietica, ma anche nella definizione della forma e dell’assetto della città ‘socialista’ e del suo immenso retroterra rurale. Con l’apertura degli archivi ex sovietici, il lavoro dello storico attraverso le fonti e i documenti, oltre a essere agevolato, trae nuovi, straordinari stimoli. I tanti quesiti posti sulla linea di confine che separa gli eventi sociali ed economici e le trasformazioni spaziali cominciano infatti a ricevere risposte sempre più precise, delineando con sempre maggior nettezza le relazioni che hanno caratterizzato i mutamenti urbani e territoriali, i processi politici e amministrativi, i dibattiti teorici, le strategie progettuali1.

I regimi totalitari degli anni Venti/Quaranta dimostrarono di essere particolarmente radicali ed intransigenti per quanto riguarda la rivoluzione, onnicomprensiva, della cultura tradizionale.

L’arte di realismo socialista durante l’epoca staliniana, tuttora poco conosciuta in Occidente, fu un fenomeno assoluto e universale. Come parte di una cultura organizzata centralisticamente, essa si basava su meccanismi pubblicitari e strategie volte a diffondere il proprio effetto propagandistico in maniera efficace. Esiste una chiara rispondenza fra il realismo staliniano e la cultura di massa statunitense dello stesso periodo. Le affinità tra gli aspetti commercialistico-occidentali e quelli ideologico-sovietici nelle modificazioni dell’estetica novecentesca sono maggiormente dimostrate dal fatto che entrambi gli schemi fossero stilistico-formativi e indirizzati alla gente nello stesso modo – la differenza era che un certo tipo di beni venissero offerti allo standard di vita occidentale tout court, mentre soltanto uno, l’Uomo Nuovo, era promosso in Unione Sovietica.

Il realismo staliniano rifletteva, sul piano visuale, gli eventi storici del proprio tempo. Interagiva in molteplici campi d’azione, dalla pittura al manifesto, dalla scultura al magniloquente ed equilibrato disegno architettonico, fino al cinema. Ha affermato il critico tedesco Max Hollein che soprattutto dopo la caduta del Muro, la globalizzazione e il cambiamento dei blocchi di potere e d’egemonia, è diventato obbligatoriamente necessario rivalutare i modelli di rappresentazione degli Stati totalitari e riconsiderare le relazioni fra arte e potere.

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E anche Boris Groys, professore di Estetica, Storia dell’arte, e Teoria dei media alla Staatlichen Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, ribadisce nel suo The Total Art of Stalinism2 che l’arte staliniana del realismo socialista è stata un’immensa campagna di promozione a tamburo battente per l’edificazione del comunismo. L’agitprop bolscevico era molto più vicino all’esempio pubblicitario occidentale che alla propaganda nazista; non aveva come obiettivo un gruppo elitario, piuttosto chiedeva al genere umano di ‘acquistare un prodotto’ chiamato comunismo. Secondo questa linea c’era una cultura per le masse, che allora non esisteva come tale ma che sarebbe divenuta la realtà del futuro.

Il periodo fra le due guerre mondiali fu un’età che vide fondamentali cambiamenti negli spazi pubblici e la formazione di una cultura di massa diffusa, che avrebbe compenetrato ogni aspetto della vita. Fondata essenzialmente sui mass-media – film, documentari, lungometraggi e manifesti –, essa consentiva la riproduzione e la distribuzione di immagini su larghissima scala. Però il meccanismo distributivo finì per prevalere anche nelle sfere tradizionali della pittura, della scultura e dell’architettura, che così acquisirono nuove funzioni e usi sociali.

I regimi totalitari degli anni Venti-Quaranta del sec. XX, dimostrarono di essere particolarmente radicali ed intransigenti per quanto riguarda questa rivoluzione onnicomprensiva della cultura tradizionale. L’assunto che, oggi, la cultura di massa sia primariamente considerata e analizzata come un qualcosa di commerciale, conforme al mercato, non ci deve far dimenticare che essa era, soprattutto, impostata ed adoperata per scopi politici nei primi stadi del suo sviluppo. La cultura sovietica nell’èra di Stalin non soltanto figurava un esempio fuori dal comune di cultura di massa centralizzata, ma ha avuto il più largo lasso di tempo fra tutte le sovrastrutture totalitaristiche del genere.

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Stalin era il mecenate, l’acquirente e il soggetto stesso di numerose opere d’arte. La realizzazione del suo imponente piano di edificazione del socialismo in un solo paese, sorretta dalla politica di industrializzazione accelerata e dalla collettivizzazione agricola forzata, fu accompagnata da un gigantesco apparato propagandistico. Il culto della personalità attorno al piccolo padre e la divinizzazione di Lenin alimentarono la produzione di immagini intese a celebrare progetti e conquiste del regime. La visione diretta dell’epoca era sia aspetto esteriore che strumento di potere, rivelando i caratteri di quella cultura: quasi una multiforme ‘fabbrica’ interdipendente di ritratti disegnati che avevano lo scopo di cambiare il volto di un intero impero.

Grazie alle forme realistiche questo tipo di arte sembrò gradevole, chiara e facile da capire per i popoli dell’Urss; delineò un’impresa compiutamente ideologica in termini di contenuti e traguardi: l’arte socialista non poneva se stessa come modello di vita ma visualizzava il sogno collettivo di un mondo nuovo e di un Uomo Nuovo. Dissimile dall’arte nazionalsocialista, che era orientata al passato völkisch, quella dell’èra staliniana guardò al futuro, e non può essere considerata un semplice arretramento verso la tradizione naturalistico-pittorica del sec. XIX (retorici e simbolisti); piuttosto venne costruita sull’Avanguardia russa (1890-1927), in lotta per la totale palingenesi della vita estetica e politica. Facendo affidamento su diversi mezzi artistici e politici, essa perseguì il suo scopo: l’impero dei Soviet come ‘opera d’arte nazionale’, il realismo socialista come sintesi di cultura e potere, Stalin come Artista-Dirigente.

Tale processo segnò la svolta dalla Grande Utopia – suprematisti, futuristi, costruttivisti – alla Nuova Utopia, che abbracciava tutto il genere umano nella concezione marxista-leninista. L’adozione della maestosità classica degli anni Trenta/Cinquanta – contrapposta agli effetti minimi del neoclassicismo sovietico che si impose dopo la morte di Stalin – si poneva perfettamente nell’alveo dell’arte di un realismo che voleva essere nazionale nella forma e socialista nel contenuto:

La sostituzione dei modelli utopistici che avevano caratterizzato il periodo staliniano cambiò il tipo di richieste e l’orientamento del lavoro architettonico. L’utopia socialista degli anni di Chruščëv non superò il livello del quarto piano (Andrej Ikonnikov)3.

O come ha rilevato Franco Cardini sullo Stalin autocrate:

Non lo sciocco Nicola II, ma lui fu il vero erede e continuatore di Ivan IV e Pietro I. Fu tutt’altro che un’incidente di percorso’ senza il quale il comunismo sarebbe stato tutto rose e fiori. Lui fu il comunismo: lui gli dette un senso, lui obbligò la storia a piegarsi per decenni dinanzi al mediocre filosofare del noioso Marx. Indro Montanelli ha scritto che Stalin è degno di un Plutarco o di uno Shakespeare. È vero: laddove gente come Eltsin o come Bush, messi insieme, non sono degni nemmeno della penna di Pitigrilli4.

Note:
1 A. De Magistris, U.R.S.S. Anni ’30-’50 Paesaggi dell’utopia staliniana, Mazzotta, Milano 1997, p. 9.
2 B. Groys, The Total Art of Stalinism: Avant-Garde, Aesthetic Dictatorship, and Beyond, Princeton University Press, Princeton 1992.
3 A. Ikonnikov, ivi, p. 264.
4 F. Cardini, Lo zar Stalin il Grande, “Il Sabato”, XVI (1993), N. 22 (22 maggio), p. 63.
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Giovanni Armillotta

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