Picnic ad Hanging Rock: decadenza vittoriana e misteri
Australia, terra di antiche usanze aborigene e vincoli ancestrali, perfetto sfondo della visione metafisica che coniuga realtà e illusione. La stessa formazione rocciosa di Hanging Rock, composta da un raro tipo di blocchi vulcanici, alimenta da sempre leggende sugli spiriti che vi risiedono. Ed è proprio ai piedi di quelle scoscese pareti e pinnacoli che alcune studentesse di un aristocratico collegio vittoriano si recano a trascorrere il giorno di San Valentino, anno 1900. Flute du Pan di Gheorghe Zamfir è l’ipnotica melodia che seduce la mente dello spettatore attraendolo nella dimensione onirica del film Picnic ad Hanging Rock (Australia, 1975 – con Rachel Roberts, Anne Lambert, Helen Morse, Nelson Margherita), tratto dall’omonimo romanzo di Joan Lindsay e diretto da Peter Weir. Il tragitto verso la destinazione prescelta è un metaforico ritorno alle origini. Addentrarsi nella natura incontaminata, come vestali in processione verso il tempio, avvolte nelle candide vesti e consapevoli di andare incontro all’ignoto più assoluto. Distaccarsi dai rigidi canoni di un’epoca decaduta: l’austerità del collegio, l’annientamento d’ogni slancio emotivo non contemplato dall’etichetta. Voltare le spalle a una società fondata sulla presunzione di una qualche superiorità morale, alle frustrazioni dell’anziana direttrice, Miss Appleyard, determinata a reprimere il sentimento esclusivo di Sarah verso Miranda nella vanagloriosa illusione di purificarsi dalla medesima colpa – una passione inconfessabile per l’insegnante di matematica, “donna d’intelletto così mascolino”.
Il tempo ad Hanging Rock si ferma a mezzogiorno, momento esoterico propizio per varcare la soglia dimensionale. Miranda, Marion, Irma e Edith si separano dal gruppo. La luce solare diffusa dagli alberi, l’atmosfera quasi surreale sottolineata dalle riprese al rallentatore designa l’inizio di un cammino di elevazione spirituale, l’ascesa fino alle vette che si stagliano contro il cielo, maestose e imponenti. Nel commiato fra Mademoiselle de Poitiers e Miranda emerge ancora una volta il simbolismo legato alla forza motrice della natura, all’energia vivificatrice di cui La nascita di Venere del Botticelli è l’emblema. Superando a piedi scalzi le pareti basaltiche e sciogliendosi in una danza magnetica e sensuale, le giovani donne compiono la propria iniziazione, distese in cerchio ai piedi del pinnacolo.
Estasi e panico giungono al loro culmine: Marion e Miranda scompaiono nel nulla, ed in seguito Miss McCrow. Di loro più nessuna traccia, il mistero è insolubile. L’intero villaggio sprofonda nel caos, la gente appare sconvolta dall’impossibilità di fornire una spiegazione razionale all’accaduto. Alcuni, ossessionati dalla bellezza e dall’enigmatica sparizione delle studentesse, s’arrischieranno anche a costo della vita nell’estremo tentativo di riportarle indietro. S’innesca una lunga serie d’orrori mentre l’eco panica serpeggia nell’aria e timori sempre più oscuri e indefinibili attanagliano le menti. Angoscia e follia s’impossessano repentinamente di coloro che non sono disposti ad accogliere l’insondabilità dei misteri dell’universo, gli innumerevoli dubbi che l’intelletto umano non può risolvere. Un vero e proprio giallo trascendentale, superbamente reso dalla sublime fotografia di Russel Boyd.
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