L’invasione degli ultracorpi: sessant’anni di baccelli spaziali
Il soggetto del romanzo di fantascienza Invasion of the Body Snatchers (1955), di Jack Finney, si è talmente radicato nella mente degli spettatori da attraversare decenni di visioni cinematografiche, dalla prima trasposizione sul grande schermo – il film culto L’invasione degli ultracorpi (1956), di Don Siegel – sino al Terzo millennio. La nevrosi collettiva che affligge gli abitanti di Santa Mira, cittadina californiana immaginaria, è giunta dalla penna di Finney a contagiare la società moderna nel film del 2007, Invasion – diretto da Oliver Hirschbiegel – sotto forma di un virus proveniente dallo spazio siderale. Uomini e donne in apparenza identici a sé stessi: fisicità, volti, abitudini e ricordi non sono assolutamente differenti. Cosa rende intrinsecamente tali individui tanto cambiati da essere percepiti come estranei? Diversi al punto da non essere identificati come la medesima persona da parenti stretti e amici, i quali sono convinti – contro ogni buonsenso o logica – che essi siano impostori. È frutto di allucinazioni e idee paranoiche oppure un assurdo evento reale?
Il dottor Miles Bennell – Kevin McCarthy nella versione anni Cinquanta – si troverà davanti alla drammatica scoperta di un corpo, in perfetto stato fisico ma privo di vita e impronte digitali, disteso sul tavolo da biliardo a casa dei coniugi Belicec. La pellicola di Siegel genera un intreccio di altissima tensione e suspense, indipendentemente dal fatto che sia una produzione a basso costo: quasi assenti gli effetti speciali e priva di spettacolarità visiva, compone un’atmosfera agghiacciante di fuga, nascondigli angusti e claustrofobici, una totale immersione nell’angoscia di essere senza via di scampo. Assimilazione e perdita delle caratteristiche umane – emotività, empatia, sfera sentimentale e istintiva – in favore di una fredda, asettica e rigorosa logica e di una piatta insignificante routine. I baccelli spaziali sono in grado di replicare il codice genetico degli esseri umani, originando cloni che ne assorbono la coscienza individuale durante il sonno:
“Non cercate di resistere, è inutile: prima o poi dovrete addormentarvi”.
L’evoluzione degli inquietanti baccelli prosegue con l’elegante rifacimento firmato dal regista Philip Kaufman, Terrore dallo spazio profondo (1978). Gli effetti speciali che descrivono lo sviluppo delle minacciose spore aliene in un fiore carnoso rosso e l’assorbimento successivo dell’intelletto umano sono tuttora raccapriccianti, ad eccezione di qualche passaggio che – a distanza di tempo – evidenzia una tecnica di animazione poco efficace. Fra gli interpreti, oltre al celebre Donald Sutherland nei panni del temuto e meticoloso ispettore del ministero della Sanità ed una breve apparizione del protagonista de L’invasione degli ultracorpi, va ricordato Leonard Nimoy, alias Spok di Star Trek, nel ruolo dello psichiatra David Kibner. Un’icona per gli appassionati del genere Sci-Fi. La vicenda si svolge a San Francisco, dove la botanica Elizabeth Driscoll (Brooke Adams) casualmente raccoglie uno degli insoliti fiori, portandolo con sé a casa nella speranza di identificarlo in una specie conosciuta. Non riuscendovi, lo dimentica in un bicchiere. L’indomani, il marito Geoffrey (Art Hindle) sembra essere diventato un altro: distaccato, assente, si incontra con sconosciuti coi quali scambia misteriosi pacchetti. In città si moltiplicano gli episodi di una strana fobia: le persone smettono di riconoscere i propri cari, eppure in breve tempo affermano di essere ‘guariti’ e ritrattano tutto. È l’inizio di un incubo e il tentativo disperato di resistere all’omologazione.
Ultracorpi, l’invasione continua (1993) di Abel Ferrara è probabilmente la rivisitazione meno riuscita del capolavoro cinematografico di Don Siegel. Nella versione anni Novanta, l’effetto d’insieme è più attutito: dall’urlo tremendo dei cloni alieni quando individuano un oppositore (i timpani ringraziano, comunque era sconcertante l’impatto sonoro delle pellicole precedenti) alla narrazione piuttosto insipida, dispersiva e carente di pathos. Con il miglioramento delle tecnologie digitali rispetto a tre lustri prima, gli ultracorpi di Ferrara sono più ripugnanti e muniti di orribili tentacoli che s’insinuano negli orifizi delle vittime. Eppure, gli invasori risultano meno invincibili, quasi deboli. Non più terrificanti nella stringente ineluttabilità, come l’originale soggetto impone. Tale abbassamento della tensione emotiva è una caratteristica che, purtroppo, si riscontra in molti film che puntano sugli effetti speciali, perdendo potere di suscitare angoscia. Perfino il criticato Invasion di Hirschbiegel, con l’eterea protagonista Nicole Kidman – un insuccesso al botteghino – ha sicuramente centrato meglio l’obiettivo di turbare lo spettatore.
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