The Lobster: quando l’omologazione arriva a essere un delitto
Il regista greco Yorgos Lanthimos ci immerge in uno scenario di progressivo e inesorabile straniamento. Una fredda dimensione in cui, agli occhi dello spettatore, i costumi sociali sono regolati da assurde prassi, vissute in maniera perfettamente ordinaria per coloro che ne sono protagonisti. The Lobster, premio della giuria al Festival di Cannes 2015, illustra un ipotetico futuro in cui le relazioni matrimoniali sono obbligatorie e controllate dalle autorità: essere individui liberi di condurre una vita sentimentale a proprio piacimento equivale ad una perversione che è punita con la privazione della forma umana. Chi non riesce a trovare un coniuge completamente affiatato – non sono ammesse tensioni di coppia o discussioni – viene destinato alla dolorosa e cruenta trasformazione fisica in un animale.
Nessun sentimento di compassione nell’osservatore esterno scaturisce dalla rappresentazione del genere umano di Lanthimos, non suscitano dispiacere né commozione le vicende che si susseguono, distaccate e asettiche nella raggelante quotidianità dei personaggi, sullo schermo. Ciò che colpisce e trasmette un senso di repulsione via via più profondo è l’assoluta imperturbabilità dei protagonisti, la cieca accettazione, l’assenza di senso critico. Nessun istinto di ribellione, né senso di ingiustizia alla quale sarebbe doveroso reagire, quantomeno indignandosi, opponendosi per affermare il diritto alla scelta individuale. Il libero arbitrio annullato senza battere ciglio con imposizioni incomprensibili e riprovevoli. Perché siano in vigore tali disposizioni non è argomento di discussione, bensì quale sia la ragione che spinge tutti, indistintamente, ad abbracciare i dettami prevaricatori di una sovrastruttura come corretti e irrevocabili: l’obbligo di omologazione diviene un bisogno artificioso. Indotto dalla società avariata, dalla meschina necessità di sentirsi uguale agli altri fino all’orrore, diventa un dogma. Pur nella ribellione la tendenza a uniformarsi prevale su ogni altro fine.
Una morale distopica serpeggia in maniera viscida, repellente anche quando sboccia un sentimento vero fra David (Colin Farrell) e la donna miope (interpretata da Rachel Weisz) di cui nemmeno si conoscerà mai il nome, tant’è culminante la spersonalizzazione che pervade l’intero lungometraggio.
Non è un caso che regista e sceneggiatore – assieme a Efthymis Filippou – siano entrambi nati in Grecia. Essere testimoni di una macelleria sociale a cui ciascuno viene condotto, suo malgrado, dal rigore dettato da un meccanismo sovranazionale, dev’essere simile all’effetto che The Lobster induce nello spettatore. Disorientamento, disturbo interiore e impotenza per una trama spietata che è stata già scritta.
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