Found footage e unicus agens
In un primo articolo sul found footage ci siamo dedicati alla storia di questo non più nuovo, ma rivoluzionario sistema di cinematografia. Oggi tenteremo provocatoriamente un suo sviluppo che esuli il formalismo del rapporto duale “cameraman”-protagonista, fondendolo nell’unicus agens.
La prima frase che verrebbe in mente a un soggetto privo di “cameraman” e posto in un insieme chiuso sarebbe: «non saprei che fare». Io rispondo: «Chi l’ha detto che si debba fare qualcosa?».
La riflessione di chi scrive adesso giacerà in merito ad un happening internettistico ch’era di moda tanto tempo fa: la web-cam-in-diretta sempre collegata al computer e alla rete in modo che anonime presenze si collegassero e vedessero o non vedessero [mica doveva stare sempre a portata di web-cam o a casa la persona] il soggetto delle riprese.
Divenne desueta anche perché coi nuovi sviluppi della tecnologia pareva, ed in effetti era, una cosa ormai superata e direi anche noiosa, pure perché il soggetto si palesava raramente: e se si pone mente locale, mai un film è stato girato – io ne sappia – col sistema teorico di una presunta web-cam-in-diretta in un insieme chiuso, che mostrasse quali strabilianti, orrorifiche e fantascientifiche cose. E ad oggi se a qualche regista venisse in mente, resterebbe ancora quale patrimonio inesplorato e da scoprire da parte della Settima Arte.
Al contrario della web-cam-in diretta, il found footage partorito in ambiente chiuso ed “aurocreantesi” – in quanto, si badi bene, non c’è un secondo che riprenda il soggetto, ma è il soggetto medesimo a farlo, portandosi dietro la cam, lo smartphone o altro, e man mano appoggiandolo, o fissando uno spazio fisso da dove l’unicus agens non esca fuori inquadratura – si pone all’opposto dell’antica web-cam-in-diretta poiché per prima cosa esclude i tempi morti [i.e. l’anzidetta persona quando esce, o si reca in un altro ambiente]; in secundis non attende nemmeno una sceneggiatura – come pure poteva la malizia e/o premeditazione del soggetto web-cam-in-diretta attuarla: sapendo di essere osservato da migliaia di potenziali scrutanti, apposta si faceva desiderare.
La sceneggiatura riposa proprio nell’assunto «non saprei che fare», poiché già il pensiero di autoriprendersi, per primo generebbe un grande imbarazzo; ma non sarebbe un moto dell’animo dettato da un copione, ma appunto dallo stato di cose, quindi spontaneo e sincero. Dopo l’imbarazzo procederebbe la coscienza di non star recitando, ma di far quel qualcosa – ad esempio leggere un libro, scrivere o pensare “solamente” – opposto al fatidico e illuminante «non saprei che fare».
Solo in un secondo tempo, da parte degli “scopritori” del found footage, rinvenuto in scatolone polveroso di cantina maleodorante possibilmente squallida – il termine found è alla base! – si porrebbero correzioni e accorgimenti e consigli che perfezionerebbero la cinematograficità dei propri compiacimenti di discoverer, protagonista e spettatore.
Non vorrei dire un’eresia però a parer mio molti attrici e attori, aborrendo il senso del regista, sperimentano tale sistema per procedere in avanti col proprio lavoro.
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