Kurt Cobain, vent’anni di Nirvana
I’ve been locked inside / Your heart-shaped box for weeks. “Sono stato rinchiuso nella tua scatola a forma di cuore, per settimane”, cantava Kurt Cobain in un singolo dell’album In Utero (1993).
La voce grunge dei Nirvana non poteva sapere che Courtney Love l’avrebbe preso alla lettera. Vedova inconsolabile, l’artista statunitense convolata a nozze nel ’92 con l’”alieno” Kurt sulla hawaiiana spiaggia di Waikiki, è fedele alla memoria del marito: si dice che tuttora conservi parte delle sue ceneri in una scatola – non più nell’orsetto di peluche, come spifferarono le cronache a un anno esatto dal tragico suicidio. Immaginare una simile fine del mito di milioni di adolescenti e ragazzi degli anni Novanta suscitò smarrimento fra tutti coloro che si sentivano “come lui”, identificandosi nell’amaro inno generazionale di Smells Like Teen Spirit (1991) – il più noto brano del gruppo di Aberdeen, loro cittadina d’origine vicino Seattle. Un riff agitato di chitarra e una scarica di batteria sismica introducono i quattro minuti e trenta secondi che hanno proiettato i Nirvana nella leggenda del rock.
Il fulminante, inatteso successo mondiale aveva colto di sorpresa soprattutto Kurt. Lanciato a raffica sul canale MTV, a dicembre del medesimo anno il primo estratto dall’album Nevermind decollava negli Stati Uniti d’America al ritmo di 400mila copie settimanali. Tutto esaurito ai concerti del tour europeo, mentre in Italia l’emittente radiofonica Rai iniziò a trasmettere l’alternativa corrente punk rock. In un soffio, Dangerous di Michael Jackson veniva sbalzato fuori dalle classifiche: il debutto major dei Nirvana per la “Geffen Records” stava contagiando la musica col germe di uno “sporco” malessere esistenziale.
Annullamento di desideri, illusioni sensoriali e passioni. Una “liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno, e questo si avvicina al mio concetto di punk”1, affermava il chitarrista e cantante riguardo al nome della band: Cobain era cronicamente depresso da anni. Come irrequieto e ribelle adolescente aveva interrotto i rapporti con la famiglia – umile e disastrata –, abbandonando anche gli studi per vivere da nomade. Senza punti di riferimento né soldi, senza fissa dimora il ragazzo della periferia di Seattle aveva vagabondato fino a raggiungere la capitale dello Stato di Washington, Olympia. Inevitabilmente, il suo “male di vivere” si stava riversando negli spartiti dei brani composti dal 1987 con l’amico bassista Krist Novoselic (n. 1965). Lo spleen baudeleriano inondò la produzione artistica della formazione – alla quale nel ’90 si era unito il batterista David Grohl (n. 1969).
Non importa,“never mind”. Apatia, nichilismo: nessun altro avrebbe saputo cantare con una imperturbabilità simile “I’m so happy / ‘Cause today I found my friends”, l’incipit di Lithium.
Tanto “felice” da suicidarsi, il 5 aprile del 1994, con un colpo di fucile dritto in bocca. A ventisette anni, intossicato dall’eroina, oppresso da problemi personali e dilaniato dal peso delle implicazioni per un involontario ruolo di portavoce della grunge generation. “Il peggior crimine che mi possa venire in mente sarebbe fingere, facendo credere alla gente di divertirmi” scrisse in una lettera d’addio, poco prima di premere il grilletto. Solo due mesi addietro, la fotografa Youri Lenquette aveva immortalato Cobain nel suo studio parigino mentre si puntava una pistola alla testa. Gli scatti sono rimasti nascosti sino ad oggi: l’anomalia è che Kurt – schivo, terrorizzato dalle luci della ribalta – stavolta si era volontariamente offerto all’obiettivo fotografico. Maglione verde consunto e sguardo risoluto: così lo vedremo esposto a Parigi dal 25 marzo al 21 giugno, alla Addict Galerie durante la mostra intitolata “The Last Shooting”. Nel ventesimo anniversario della sua morte – quando era ancora un alieno2.
Note:
1 Kurt St. Thomas, Troy Smith. Nirvana: The Chosen Rejects, St. Martin’s Griffin, 2004, pag. 94
2 “When I was an alien” è un verso di Territorial Pissing (Nevermind, 1991).
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