Goa: la cacciata degli hippie dal paradiso terrestre
Viaggio spirituale in India
Erano partiti alla ricerca dell’amore e della conoscenza i nostri anticonformisti genitori, nel fiore degli anni ribelli, verso un mondo più puro – che intendevano ritrovare fra le braccia della grande madre India. Antiche città sacre e il mistico profilo innevato dell’Himalaya. Metà anni Sessanta: un esodo rivolto alla calma e la contemplazione, nella terra delle spezie, tra polveri variopinte e feste dedicate a Krishna – il Maestro che distrugge l’illusione. Tanta canapa e poche rupie bastavano a intraprendere il viaggio per eccellenza nell’immaginario collettivo dei giovani occidentali. Lontano dalla monotonia industrializzata, via dal grigiore di ruoli sociali ammuffiti, dalla prepotenza e dalla competizione spasmodica di stampo consumistico. Purificazione al tramonto e all’alba nelle sacre acque che scorrono a Varanasi o nella città di Haridwar, sul Gange; devozione per un soggetto immenso e superiore al fiume di denaro fluttuante a Wall Street. Coi suddetti propositi volavano i molti freak sino a Delhi, attraverso interminabili file doganali all’aeroporto internazionale ‘Indira Gandhi’. A bordo di uno sgangherato taxi – ed a migliaia di chilometri da casa – poteva finalmente avere inizio la ricerca di se stessi, della natura incontaminata e dei valori autentici. Era possibile credere tutto ciò, pure nel 1980 – particolarmente dopo aver assunto dosi massicce di acido lisergico.
Si poteva sorseggiare tè allo zenzero negli stravaganti alloggi affittati da famiglie kshatrya cadute in rovina; perdersi alla vista delle magnolie affollate da pappagalli e scimmie – e ritrovarsi, durante la sera, a scambiare consigli in terrazza con altri viaggiatori squattrinati:
Gli aneddoti su quel paese da mille e una notte si sprecano, ma gli argomenti importanti rimangono due, spesso mischiati: incontrare il maestro («Il maestro non si cerca», dice un tedesco che sembra Jesus Christ Superstar, «lo incontrerai quando per te sarà il momento giusto») e trovare il fumo migliore. Da Delhi parte il viaggio vero e proprio, la ricerca.
«Puoi andare da Babaji».
«Babaji?».
«Un perfetto maestro che vive da secoli e non invecchia mai. Ogni tanto scompare, poi riappare da qualche parte, ma sempre intorno all’Himalaya. Adesso ha un hasram a Hairakhan, in Uttar Pradesh, un posto meraviglioso, anche se ci sono troppi milanesi. Lui possiede la verità. Bisogna vedere se te la vuole dare, se ti ritiene pronto. Ne parla pure Paramahansa Yogananda. Hai letto Autobiografia di uno yogi, no?»1.
Credere che immergersi in una comunità definita arcaica, distante ore di volo dall’Europa potesse servire a fermare il tempo – e con esso congelare le voraci zanne del consumismo: pareva possibile. Chi mai avrebbe contaminato l’India, giacimento originario di sapienza e spiritualità, essenza mistica di una storia antica, terra di elefanti, guru e maragià? Se fare abluzioni nelle gelide acque del Gange – secondo la religione induista il fiume è una figurazione della dea madre Ganga, localmente: “Ma Ganga” – offre l’opportunità all’uomo per liberarsi dal ciclo delle rinascite, era ipotizzabile trovare fra i brahmani un po’ di sollievo dall’ossessione del mantra usa-e-getta che impregna l’Ovest.
A tal punto, il maestro Babaji avrebbe annuito e il nostro freak avrebbe sorriso, con l’intima, rassicurante sicurezza di aver fatto un passo avanti sull’impervio cammino della perfezione. E di nuovo in viaggio, radendosi a zero i capelli per ritemprare lo spirito. Un treno sovraccarico rallenta continuamente per accogliere a bordo tutti i passeggeri improvvisati – e dalla campagna a nord di Delhi la gente rivolge cenni di saluto al convoglio. Il tempo non esiste.
«In India i rifiuti sono quasi tutti organici», spiega lo spagnolo. «L’inorganico viene riciclato all’infinito, praticamente non diventa mai un rifiuto. E alla nettezza urbana dell’organico provvede la natura. Se ti compri un masala dosa a un chiosco di strada te lo danno su una foglia di banana: mangi, butti la foglia per terra e la prima mucca sacra che passa la fa sparire. Se proprio sei sfortunato te lo avvolgono in un foglio di carta di giornale, ma per le capre è buono pure quello»2.
Tutta natura. Eppure, attraverso lenti spostamenti nel subcontinente e lunghe ore a digiuno, ecco che si affaccia un tramonto: l’inquietudine sopraggiunge, inattesa, proprio quando la felicità sembrava così vicina. Pure il popolo della fratellanza e della pace si dimostra non troppo disinteressato. La legge inevitabile della domanda e dell’offerta genera il mercato della conoscenza – ove i guru si moltiplicano in maniera esponenziale e nuovi ashram sorgono come cattedrali nel deserto di Thar.
I sanyasi occidentali – una sorta di casta creata ad hoc per i turisti – sono diventati figli adottivi di Ma Ganga e come tali si iscriveranno alle scuole di musica per imparare a suonare le tabla, danzeranno unendosi agli elaborati cerimoniali di preghiera. Babaji avrebbe vistosamente annuito.
A pochi eletti è capitato d’incontrare l’amore contrattando sotto il sole al mercato delle spezie, o di sugellare la propria unione con un primogenito. Si chiamerà Rajeendra, avevano deciso mamma e papà (pur essendo entrambi italiani) tenendosi per mano a Freak Street – com’è stata ribattezzata, vista l’affluenza, una delle strade principali della vecchia città di Katmandu. E sarà un artista: devastato dalla droga.
Nel Terzo millennio qualcosa è cambiato. Il virus del quale i ragazzi di ieri cercavano una cura è stato, assieme a loro, passeggero di un charter. L’infezione si è estesa: a Goa, la perla d’Oriente (tuttora meta preferenziale di vacanze alternative in stile anni Settanta) sono spuntati come funghi i villaggi turistici. Sponsorizzata ai quattro angoli del mondo, la destinazione balneare più occidentale dell’India – circa cento chilometri di spiagge perlate e palme – accoglie quasi un milione di turisti l’anno, in particolare inglesi e russi. Alla ricerca di peace&love è subentrata l’esigenza del pudore e del contegno: stop a droghe e nudismo, è declinato il mito dell’amore libero.
L’ex colonia portoghese – riportata nella Madrepatria nel 1961 con le armi – è oggi uno Stato fiorente, con un Pil pro-capite che surclassa due volte e mezza la media dell’Unione Indiana – e un veloce tasso di crescita (8,23% annuo per il decennio 1990-2000). Manco a dirlo, il turismo è l’attività economica principale: generosi visitatori muniti di pacchetto vacanza, con volo e hotel inclusi nel prezzo si riversano nella splendida regione a ovest dei Ghati. Non graditi fricchettoni con sacchi a pelo, pochi spiccioli e tanga sgargianti; è assolutamente vietato prendere il sole nudi e fare tuffi in topless nell’Oceano Indiano.
Il maestro Babaji stavolta annuisce con sguardo severo. Egli vive da secoli e osserva; molto di rado scuote la testa lateralmente, poiché gli indiani fanno sì con la testa come noi facciamo no, per disapprovare. Profumi di patchouli e incenso, ritorno alla natura, estasi primordiale. La musica trance nelle notti di luna piena, i suonatori di sitar, il freak tatuato. Hare, Krishna: l’illusione è distrutta.
Note:
1 Alberto Bracci Testasecca, Il viaggio freak nell’India del velo dei Maya, Limes – Rivista italiana di geopolitica, N. 6 del 2009, pag. 150.
2 Ivi, pag. 151.
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