L’inesistenza della pazzia
Quando le avanguardie della Generazione X iniziarono – fra il liceo e il diritto di voto – ad assumere una coscienza politica, una delle prime bandiere, che videro sventolare all’orizzonte del loro futuro, fu quella delle privazione dei diritti civili, dovuta al problema psichiatrico. Il 13 maggio 1978 fu approvata la Legge N. 180 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori (detta Legge Basaglia), riproposta letteralmente dalla N. 833 del successivo 23 dicembre Istituzione del servizio sanitario nazionale. Essi dispositivi scatenarono una dura schermaglia non solo fra i fautori e gli oppositori delle necessità manicomiali, bensì sul concetto stesso di ‘malattia mentale’ così come era stata trasmessa dalla medicina positivistica (Lombroso & Co.), e concretizzatasi dalla Legge N. 36 del 14 febbraio 1904, Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati, che istituì ufficialmente i primi lager della diversità. Però con lo spostare la ‘cura’ nella territorialità, con una completa impreparazione delle Regioni, la questione assistenziale andò in pratica dall’amministrazione statale alle famiglie, creando i successivi problemi con il parente già bollato in precedenza quale ‘pazzo’.
In definitiva i 76 manicomi attivi nel 1978 sono stati sostituiti da: 320 SPDC (Servizio psichiatrico diagnosi e cura); 1.341 strutture residenziali (CTR Comunità terapeutica riabilitativa – GA Gruppo appartamento – CA Comunità alloggio); 257 strutture semiresidenziali (DH Day hospital); 433 imprese sociali (residenziali e semiresidenziali); 481 strutture semiresidenziali (CD Centri diurni); e 695 centri di salute mentale1.
Il dibattito fra gente comune, famiglie, uomo della strada, come si diceva allora, fu proprio impostato dagli ex giovani di oggi che da quel tempo presero ad erodere fra le mura di casa la scontatezza della ‘pazzia’.
Non è un caso che anni fa intervenendo a un seminario organizzato da un comune italiano, avente per oggetto la cosiddetta ‘insanità mentale’, un epigono della generazione X, giovane studente universitario mescolato fra il pubblico, espresse la propria opinione in merito, che trassi letteralmente dalla registrazione del convegno:
Io credo che la pazzia sia un sistema di riferimento parallelo al nostro, nel senso se un ‘pazzo’ fa delle cose che noi non comprendiamo, ovviamente anche lui non comprende il perché noi gli diciamo di non farlo. E poiché un ‘pazzo’ non è uno scemo, come non è nemmeno scemo chi gli dice di non comportarsi in quel modo, significa che i due sistemi di riferimento sono appunto paralleli ma non intersecabili attraverso la reciproca comprensione. Perciò qual è il parametro che stabilisce se ha ragione il ‘pazzo’ o il normale? Non può trovarsi quel parametro nel sistema di riferimento del normale, ma nemmeno del ‘pazzo’, sennò entrambi si darebbero [avrebbero, NdAZ] ragione e la verità non sussisterebbe. Noi possiamo solo dire che – siccome alla fine alcuni sembrano che abbiano ragione, cioè i normali – significa che il comportamento di questi ultimi prevale, perché si basa sul numero degli anzidetti, ossia sulla maggioranza dei comportamenti analoghi nel sistema di produzione, e quindi prende il sopravvento sul ‘pazzo’ attraverso la coercizione, sia essa con camicie di forza, farmaci, elettrochoc, lobotomie, violenze fisiche, ecc. Ovvio a me fa comodo che un ‘pazzo’ sia tenuto chiuso o neutralizzato, ma questo non vuol dire che io sia nel giusto.
L’affermazione – in sé affascinante e meritevole di sviluppo nel corso dell’articolo – pecca d’ingenuità e si contraddice su un solo punto. La definizione di scemo, ossia la stupidità, è un’etichetta-attributo coniata dal normale per gli elementi, sia pure omologati, che però non si pongono ai vertici di feracità strutturale nella scala del sistema di produzione, stigmatizzato dallo studente medesimo.
Ossia il padrone è intelligente, ma l’operaio, il lavoratore in genere, sono scemi in quanto subiscono passivamente il proprio ruolo di sottoposti senza alternative. Al contrario, nel deviante, la stupidità manca in essentia ed è sostituita dalla ‘pazzia’, creata ad arte da terzi, poiché il ‘folle’ non entra in compromesso col sistema di produzione stesso – si badi, non è che lo rifiuti, ma passivamente non l’accetta – ed entrambi i sistemi (di riferimento e di produzione) escludono l’’insano’, relegandolo.
In merito alla definizione di sistema di riferimento, penso sia valido l’approccio di Ludwig Wittgenstein nei confronti del “vedere come”. Per il filosofo viennese “vedere come” vuol dire una tecnica dello sguardo non riscontrabile nello sguardo comune, ossia del normale. “Si può pertanto essere in grado di «vedere» senza essere in grado di «vedere come» e questo caso viene definito «essere ciechi all’aspetto»”2.
Un normale è cieco perché vede tutto quello che gli altri normali vedono: di conseguenza, sarebbe pure inutile avesse gli occhi, poiché gli altri normali ne sono in possesso e vedono per lui, vanificandogli la personalità ma attribuendogli un compito nella divisione del lavoro.
Tornando al nostro studente, io non posso assolutamente credere che un ragazzo di vent’anni avesse già letto e digerito il matematico e filosofo statunitense Hilary Putnam. L’autore de La sfida del realismo (The many faces of realism, 1987) ci dice che “parlare di ‘fatti’ senza aver specificato in quale linguaggio stiamo parlando è parlare di nulla; la parola ‘fatto’ non ha un uso fissato nella Realta in Sé più di quanto lo abbiano la parola ‘esiste’ o la parola ‘oggetto’”. Nella frase, provate a sostituire a ‘fatto’/’fatti’ il termine ‘pazzia’ (che è un ‘fatto’) e ogni commento sarà inutile, trionfando la tesi dell’epigono GX ignaro di Putnam ma dotato di raziocinio.
Nel momento in cui emettiamo un giudizio, dovremmo almeno avere dei metri scientifici assoluti che ci conducano a scelte ben precise (ad esempio la struttura della materia o la velocità della luce come parametro temporale universale o il metodo galileiano, ecc.), ma tali metri nell’ambito di pretese ‘scienze’ non esistono affatto. Lo stesso Kant stabilisce che il pensiero può solo sapere dei fenomeni, mentre la realtà in sé resta completamente sconosciuta. Due soli esempi.
Newton scoprì la legge di gravità, ma a tutt’oggi non ancora è stato spiegato perché si abbia questo fenomeno, lo si dà come un dogma non di fede, ma di ‘scienza’. Contraddizione suprema!
Il secondo esempio, più pertinente al tema che stiamo affrontando, è l’esperimento di David L. Rosenhan, professore di legge e psicologia alla Stanford University, svoltosi proprio negli anni della GX.
L’esperimento degli pseudopazienti
Rosenhan e sette collaboratori mentalmente sani, chiamati pseudopazienti, tentarono di ottenere il ricovero in ospedali psichiatrici telefonando per un appuntamento e simulando allucinazioni uditive. Il personale dell’ospedale non fu ovviamente informato dell’esperimento.
Gli pseudopazienti, compreso il professore, erano: uno studente ventenne diplomato in psicologia, tre psicologi, un pediatra, uno psichiatra, un pittore e una casalinga. Nessuno aveva precedenti di ‘malattie mentali’. Gli pseudopazienti usarono pseudonimi, e a quelli che lavoravano nel campo della salute mentale furono assegnati dei lavori falsi in altri settori, onde evitare di far scaturire qualunque tipo di trattamento o controllo speciale o di favore. Al di là dei nomi e dettagli sull’occupazione falsi, tutti gli altri dettagli biografici riferiti erano reali.
Durante l’accertamento psichiatrico iniziale, essi affermarono di sentire voci dello stesso sesso del paziente che erano spesso non chiare, ma che sembravano pronunciare le parole “vuoto”, “cavo”, “tonfo” e nient’altro. Queste parole erano state scelte perché suggerivano vagamente una sorta di crisi esistenziale e per la mancanza di ogni letteratura pubblicata che le riferisse a sintomi psicotici. Non fu dichiarato nessun altro sintomo psichiatrico. Se ricoverati, gli pseudopazienti avevano istruzioni di “agire normalmente”, riferendo che si sentivano bene e che non udivano più le voci. Le documentazioni dell’ospedale ottenute dopo l’esperimento indicavano che tutti gli pseudopazienti furono descritti dagli operatori come amichevoli e collaborativi.
Essi furono ricoverati, in dodici diversi ospedali psichiatrici degli Stati Uniti d’America, che comprendevano: ospedali pubblici malridotti e sottofinanziati in aree rurali; ospedali cittadini condotti da università con eccellenti reputazioni; e un costoso ospedale privato. Benché si fossero presentati con sintomi identici, a 7 fu diagnosticata la schizofrenia negli ospedali pubblici, e a uno la psicosi maniaco-depressiva, una diagnosi più ottimistica con migliori esiti clinici, all’ospedale privato. La loro permanenza variò da 7 a 52 giorni, con una media di 19 giorni. Tutti furono dimessi con una diagnosi di schizofrenia “in remissione”, che Rosenhan considera come una prova del fatto che la ‘malattia mentale’, piuttosto che come malattia curabile, è vista come una condizione irreversibile che crea uno stigma lungo la vita.
Nonostante prendessero costantemente e manifestamente appunti sul comportamento degli operatori e degli altri pazienti, nessuno degli pseudopazienti fu riconosciuto come impostore dagli operatori degli ospedali. Invece, al contrario, gli altri ‘pazzi’ tenuti lì da tempo, iniziarono a capire che si trattasse di pseudopazienti. Nelle prime tre ospedalizzazioni, 35 pazienti ‘pazzi’ su un totale di 1118 espressero il sospetto che gli pseudopazienti fossero sani, con alcuni ‘pazzi’ che addirittura suggerivano che quei pazienti erano ricercatori o giornalisti che investigavano nell’ospedale. Come si nota, i ‘pazzi’ non erano affatto scemi, cadendo la stupidità negli operatori ospedalieri.
Annotazioni degli ospedali indicavano che gli operatori interpretassero molti dei comportamenti degli pseudopazienti in termini di ‘malattia mentale’. Ad esempio, un infermiere etichettò il prendere nota di uno degli pseudopazienti come “comportamento scrivente” e lo considerò patologico. Le normali biografie dei pazienti furono rimaneggiate secondo le linee di ciò che ci si aspettava per gli schizofrenici, in base alle teorie allora dominanti sull’eziologia della malattia.
Agli pseudopazienti era stato richiesto di uscire da soli dagli ospedali ottenendo che gli ospedali li dimettessero; pur se un avvocato fu assunto per essere chiamato in caso di emergenza quando fosse chiaro che gli pseudopazienti non sarebbero mai stati dimessi a breve. Una volta ricoverati e attribuita una diagnosi, gli pseudopazienti non poterono essere dimessi finché non ammisero agli psichiatri che erano ‘malati mentalmente’ e iniziarono a fingere di prendere farmaci antipsicotici, che invece buttavano nel water. Nessun operatore si accorse che gli pseudopazienti gettavano via i farmaci, e non riferirono di pazienti che lo stavano facendo.
Rosenhan e gli altri pseudopazienti riportarono uno schiacciante senso di disumanizzazione, grave invasione della riservatezza mentre erano ospedalizzati. I beni di loro proprietà erano ispezionati in modo casuale, e a volte li si guardava mentre erano in bagno. Riferirono che gli operatori, benché sembrassero ben intenzionati, trattavano come cose e disumanizzavano i pazienti, spesso ne discutevano a lungo in loro presenza come se non fossero lì, ed evitando l’interazione diretta con i pazienti tranne quando strettamente necessario per svolgere i loro compiti ufficiali. Alcuni membri del personale erano inclini ad abusi su pazienti, verbali e fisici, quando gli altri operatori non erano presenti. Di un gruppo di pazienti annoiati che aspettavano fuori dalla mensa, ancora in anticipo rispetto all’orario di pranzo, fu detto da un medico ai suoi studenti di stare sperimentando sintomi psichiatrici di “avidi di parlare”. I contatti con i medici erano in media di 6,8 minuti al giorno.
L’esperimento degli impostori inesistenti
Rosenhan utilizzò un ben noto ospedale di ricerca e insegnamento, i cui operatori avevano sentito i risultati dello studio iniziale ma affermavano che errori simili non sarebbero potuti accadere presso il loro istituto. Rosenhan si accordò con loro che durante un periodo di tre mesi uno o più pseudopazienti avrebbe(ro) tentato di ottenere il ricovero, mentre gli operatori sarebbero stati in grado di valutare ogni paziente in arrivo riguardo alla probabilità che fosse un impostore. Su 193 pazienti, 41 furono considerati impostori e altri 42 sospetti. In realtà, Rosenhan non aveva mandato alcuno pseudopaziente e tutti i pazienti sospettati come impostori dagli operatori dell’ospedale erano pazienti qualunque. Ciò portò alla conclusione che “ogni processo diagnostico che si presta troppo facilmente a grossi errori di questo tipo non può essere molto attendibile”3.
Quando Rosenhan pubblicò le sue ricerche sulla prestigiosissima rivista “Science”4 immaginerete cosa accadde. Crollò letteralmente una leggenda metropolitana ai vertici del mondo accademico: il re era finalmente nudo. Però alla base i luoghi comuni attecchiscono e prosperano tutt’oggi. Questo dimostra che le false opinioni sono talmente in numero elevato nel comune sentire, ossia fra la gente, tali da essere arduo svellerle nelle società.
La cosiddetta ‘follia’ non è affatto una ‘malattia mentale’ – che non si deve confondere con le malattie del cervello, di pertinenza della neurologia – bensì, abbiamo visto, è lo stato d’animo ordinario posto in un differente sistema di riferimento non accettato, in quanto non compreso scientifico-emotivamente e marchiato dalla totalità agente nell’elemento del contesto societario: ossia gli elementi rappresentati da “gli angusti limiti culturali di coloro che attribuiscono a disfunzioni del cervello tutte le scelte e tutti i comportamenti che non corrispondono ai pregiudizi sociali” 5.
Il ‘pazzo’ non è accolto, ma solo tollerato in quanto apportatore di novità non mediabili dai comportamenti umani ripetuti nel corso lineare della storia. Basti citare lo studio di Klaus Dörner che pone in rilievo lo sviluppo del borgo medievale e l’espulsione dei ‘pazzi’ dal gruppo sociale, per il carattere destabilizzante del ‘folle’ a causa dello stile di vita della costituenda città nuova, nella quale si vanno elaborando i princìpi della nascente economia borghese. Il ‘folle’ quale incompatibile per le esigenze produttive del sistema economico in fieri e quindi per la cultura su cui questo si fonda; incompatibilità che non sussisteva con la preesistente comunità agricola feudale ove il ‘folle’ era ammesso pur ai margini delle mura urbane6. Michel Foucault pone dal declino del Medioevo la criminalizzazione della ‘follia’, la sua segregazione e repressione e la nascita del manicomio7.
François Laplantine afferma che a decidere chi sia ‘pazzo’ o sano non è mai la scienza (e abbiamo visto anche perché, grazie alla critica kantiana del fenomeno), ma la cultura che ogni civiltà ha elaborato:
Dovunque, la follia è una costruzione collettiva determinata a partire da un mito8. Lo psichiatra che, come il malato, è un elemento di una totalità, ha l’impressione di scoprire le cause reali della malattia mentale. Non fa invece che introdurre delle classificazioni all’interno del gruppo minoritario che gli è indicato come affetto da ‘pazzia’ dalla società in cui vive. Lo voglia o meno, egli è costretto ad accettare il verdetto dell’opinione pubblica. E poiché una cultura o un’epoca possono benissimo tollerare individui con comportamenti rigorosamente proibiti altrove o in altri tempi, i criteri del normale e del patologico non sono mai definitivamente fissati9.
La ‘malattia mentale’ in sé non esiste, è solo una definizione di comodo che si adotta in mancanza di medicinali o interventi chirurgici specifici annullanti la personalità del ‘matto’ e che possano riportare il ‘malato’ a uno stato di accettazione sociale e normalità produttiva (quella che non è la lobotomia): la confondono con un braccio rotto da ingessare, oppure con un cuore bisognoso di qualche bypass. Foucault direbbe, ironicamente, che per loro è come la sifilide seguita alla lebbra a fine XV secolo10.
Nel rifiutare l’organicismo determinista clinico-descrittivo mi avvalgo anche del pensiero di Giorgio Antonucci, Franco Basaglia, David Cooper, Erving Goffman, Ronald David Laing, Antonio Noja, Thomas Stephen Szasz, i quali sostengono pure – e prima di loro Sigmund Freud – la nozione di continuità fra normale e patologico. Tra a) normalità, b) nevrosi, e c) psicosi c’è solo una differenza di grado, di quantità, non qualitativa: le stesse forze che agiscono nella vita ‘normale’ sono presenti in quella ‘patologica’ solo ai fini di una ragione liberalistico-economica.
La psichiatria in sé non è progredita come esame della complessità umana, bensì come sistema di controllo dell’agire sociali dell’individuo. Quest’ultimo è visto non libero, ma in guisa di meccanismo che va bene o no, rispetto alle esigenze degli accordi sociali di produzione. Afferma Antonucci: “È un concetto utile a chi vuol mantenere l’ordine stabilito con i mezzi del potere e della costrizione, considerando i dissidenti, i ribelli e gli scontenti come cervelli guasti da aggiustare, invece che individui creativi capaci di scelta, quindi non sempre riducibili a modelli precostituiti e a principi autoritari” 11.
Si evince che gli uomini si riducano a cose da riparare; e quando non si può fare – soggetti non adattabili e senza disciplina – li si manda nelle cliniche psichiatriche. La psicanalisi si rifà al determinismo, per cui non ha nulla a che vedere con la comprensione della creatività della mente e all’aspetto biologico. Non è presa in esame la persona, la quale – proponendo originalità differenti dal luogo comune comportamentale – è invece compartimentalizzata a idee preschematiche.
Di conseguenza, siccome l’apparato economico-sociale è fondato su basi impositive e leggi generiche e non casistiche, esso per convenzione è intoccabile e necessariamente ostile o ogni variante pure sovrastrutturale.
Sempre Antonucci, pone un interessante parallelo col passato: “Si può fare un paragone con le scomuniche ecclesiastiche che in antico toglievano alle persone credibilità e le esponevano indifese a ogni possibile conseguenza negativa. Dopo la scomunica Savonarola aveva visto diminuire rapidamente il numero dei suoi ascoltatori nella cattedrale di Firenze, che nei momenti di maggiore successo erano innumerevoli come non si era mai visto a quei tempi. La scomunica poteva essere la preparazione del rogo, come la diagnosi psichiatrica può essere la premessa e il pretesto per l’internamento” 12.
Per cui il male non è il rogo = clinica psichiatrica, ma sono piuttosto quei pretesti giuridici (scomunica = classificazione psichiatrica), che tolgono l’identità dalla persona (condanne = classificazione come ‘pazzi’). Lo scopo è ogniqualvolta il solito: eliminare gli uomini e le donne che urtano la società civile, e privar loro dei diritti umani. Chi non rispetta i preconcetti è marchiato quale affetto di ‘anomalia cerebrale’.
Per concludere una riflessione. Fra le maggiori menzogne e malefedi di cui sono apportatori i sostenitori dell’esistenza della ‘pazzia’, è l’equazione ‘folle’ = criminale => suo annichilimento. Quando il Dr. Lecter fu internato nell’ospedale psichiatrico di Baltimora, non si agì in tal modo contro i suoi: pensiero; cultura; genialità applicata in aiuto dell’FBI e dello stesso Jack Crawford; pubblicazioni lette e studiate negli atenei statunitensi – così come sostengono gli ipocriti. Bensì furono punite le di lui azioni criminali che nulla hanno a che vedere con la ‘pazzia’ di Hannibal, che è ben altra cosa.
Note:
1 Legge Basaglia.
2 Toshihiko Izutsu citato da Fabio Falchi in Immaginazione geofilosofica e realismo geopolitico, in “Eurasia”, Parma, N. 3, Luglio-Settembre 2013, p. 25.
3 Esperimento Rosenhan.
4 On being sane in insane places [Sull’essere sani in posti pazzi], N. 179 [4070], Gennaio 1973, pp. 250-258. Leggibile qui.
5 Giorgio Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, Elèuthera, Milano 1998, p. 22.
6 Klaus Dörner, I borghese e il folle, Laterza, Roma-Bari 1975.
7 Cfr. Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1963.
8 “Il termine greco mythos sembra avere la stessa radice del latino mutus; indica un racconto che non soltanto ‘parla’, ma nello stesso tempo tace, con un’alchimia di dicibile e indicibile che rinvia all’articolazione di entrambi e con il detto che campeggia sullo sfondo tacito del non detto, dell’ineffabile, di ciò che non siamo in grado di esprimere compiutamente: e non perché non si può dire, ma perché non si finirebbe mai di dire. Da qui la ricchezza, il fascino e la plasticità dei miti, ma anche la loro relativa sterilità e il loro carattere fuorviante, qualora vengano usati come argomenti. Lasciano certo emergere e dipanare quanto d’implicito è contenuto nella nostra mente e nei nostri affetti, i quali – diversamente dai teoremi – non sono suscettibili di dimostrazione. Se non si lasciano confutare, essi non sono, tuttavia, neppure suscettibili di conferma” (Remo Bodei, Ma i miti sono solo tappabuchi?“Il Sole-24 Ore”, Domenicale del 1° maggio 2005).
9 François Laplantine, L’etnopsichiatria, Tattilo, Roma 1974, pp. 78-79.
10 Foucault, cit., p. 17.
11 Giorgio Antonucci, Diario dal manicomio. Ricordi e pensieri, Spirali, Milano 2006, p. 21.
12 Ivi, pp. 24-25.
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