Il Sudafrica senza Madiba. Libero dominio capitalista e nuova apartheid socio-economica
Nel piccolo villaggio rurale di Qunu, il 15 dicembre una solenne cerimonia ha salutato Nelson Rolihlahla Mandela: eroe della resistenza incruenta al regime dell’apartheid e primo presidente nero del Paese, Madiba – nomignolo usato nel gruppo etnico Xhosa – si è spento alla veneranda età di 95 anni. La sua bara, avvolta nella bandiera sudafricana, è stata omaggiata da canti religiosi, musiche orchestrali e voli aerei acrobatici a cui hanno assistito migliaia di persone: in prima fila, la vedova Graça Macel ed il presidente in carica, Jacob Zuma – attuale capo dell’African National Congress (ANC). Fra le autorità straniere accorse a elogiare le virtù pacifiste del leader scomparso, François Hollande e Nicolas Sarközy spiccavano per l’incoerenza: non è possibile ignorare che, dopo i recenti interventi armati in Costa d’Avorio, Libia e Mali, la Francia abbia appena avviato – con unanime consenso del Consiglio di sicurezza Onu – nuove operazioni militari nella Repubblica centrafricana. Paese ricchissimo di risorse naturali sotterranee, da circa un anno la RCA è precipitata in una spirale di violenza e caos che ha spinto sinora oltre 400mila persone ad abbandonare le proprie case. Il preannunciato raddoppio del contingente francese ha gettato nel panico la popolazione, tantoché il presidente Michel Djotodia si è premurato di sollecitare i connazionali a mantenere la calma.
Alla luce di tali drammatici eventi, va detto che a contraddistinguere la Repubblica del Sudafrica da analoghe entità statuali formatesi dopo il traguardo dell’indipendenza, non è il passato di lotte anticoloniali – né il presente, segnato dalle cicatrici di una plurisecolare dominazione. Merito dei sudafricani è l’aver compiuto la delicata fase di transizione democratica senza scivolare nella deriva della guerra interetnica. Non dimentichiamo che, nel 1994, più a settentrione – in Ruanda – aveva luogo l’efferato massacro dei Tutsi e degli Hutu moderati. Un’ecatombe sulla quale le potenze occidentali, nonché il Consiglio di sicurezza, preferirono chiudere gli occhi anziché intervenire: per quale motivo?
Nel suddetto Stato dell’Africa australe, sino al referendum del 1992, la rigida dottrina di segregazione della gente nera propugnata da un’élite minoritaria bianca – e teorizzata già negli anni Trenta del sec. XX dai discendenti dei boeri, gli afrikaner – era legge. Durante il periodo del bipolarismo USA-URSS, il governo razzista di Pretoria aveva il sostegno di Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi della NATO e dell’esecutivo colonialista del Portogallo e segregazionista della Rhodesia.I sudafricani erano separati sotto ciascun aspetto della vita sociale, economica e politica: istruzione, trasporti, lavoro e luoghi di residenza. Tutto assegnato in base alla razza d’origine. Iniqua distribuzione del territorio e dei beni, limitazione dei diritti civili e asservimento delle etnie di colore: queste le linee guida della supremazia bianca.
Finché giunse l’alba frenetica del 27 aprile 1994. Nella popolosa città di Johannesburg, schiere d’inviati speciali si attrezzavano per raccontare ciò che sarebbe successo in occasione del primo voto a suffragio universale della Repubblica Sudafricana. Dal regime segregazionista afrikaner al sistema democratico, attraverso la riconciliazione simboleggiata da Madiba – a cui diede inizio, nel 1990, il presidente Frederik Willem De Klerk (n. 1936): personalità insignite, nel ’93, del premio Nobel per la pace.
Emblema della svolta sudafricana fu l’istituzione della Truth and Reconciliation Commission (15 dicembre 1995), organismo politico di passaggio che indagò le gravi violazioni dei diritti umani connesse alle vicende dell’apartheid. Crimini perpetrati dal regime, le cui testimonianze – sino al 1998 – erano pubblicamente diffuse da radio e tv. Deposizioni, storie e ricordi strazianti di oltre 20mila persone: in quegli anni il Sudafrica sperimentò una sorta di catarsi mediatica collettiva. Dotato di potere pseudo-giudiziario, tale organo ebbe anche la particolare facoltà d’amnistia; ne furono concesse meno di 200, su oltre 7mila richieste.
L’illustre statista Nelson Mandela è stato la guida morale che ha saputo condurre il Paese nel moderno processo politico senza spargimenti di sangue. Eppure, all’epoca dei dibattiti in seno alle Nazioni Unite, solo l’Albania (i nostri padri ricorderanno ancora le trasmissioni di Radio Tirana in merito) e gli ex Paesi del Patto di Varsavia – con la Cina Popolare guardinga – sostenevano Mandela. Ventisette durissimi anni di carcere: è il prezzo che lo storico presidente (1991-1997) del partito marxista ANC ha dovuto pagare per restituire – idealmente – diritti e dignità ai fratelli oppressi.
Un tributo salato, eppure nel decennale della democrazia sudafricana, celebrato nel 2004 a Johannesburg, Mandela ribadì il concetto d’unità nazionale: “Quali che possano essere le divergenze e le tensioni tra noi, il nostro ordine democratico costituzionale non correrà pericoli. Siamo una nazione sola, solida, unita nella diversità, tenuta insieme dal nostro comune impegno nei confronti della Costituzione. Abbiamo lasciato davvero alle spalle il nostro passato di lacerazione razziale, e guardiamo al futuro con la fiducia di un paese unito, non razzista e democratico”1. Durante il medesimo, fiero discorso sul processo di unificazione, Mandela ammonì i connazionali del fatto che “troppe persone nel nostro paese ancor oggi patiscono le privazioni e i tormenti della miseria. Una delle cause primarie di questa povertà è la mancanza di lavoro. Niente può intaccare maggiormente la dignità di una persona dell’impossibilità a trovare un lavoro, un impiego che sia remunerativo”2.
Attualmente, circa un quinto – in prevalenza meticci, bianchi e asiatici – degli abitanti vive nei centri urbani. Quartieri-ghetto – come Soweto, più volte teatro di aspre manifestazioni – ai margini delle città, villaggi rurali, miniere e piantagioni sono invece affollati dai neri bantu (79,3% del totale). Le disuguaglianze socio-economiche tra gruppi razziali si sono ulteriormente acuite dopo la caduta dell’apartheid, nonostante il Paese detenga il primato del Pil (11mila dollari pro capite nel 2011) più alto del Continente – e sia, senza dubbio, una terra colma di ricchezze minerarie eccezionali (oro, diamanti, uranio, platino, ferro, carbone, nichel, vanadio, manganese, ecc.). Alla cronica disoccupazione si assommano ulteriori piaghe: analfabetismo, moltitudini di senzatetto, carenze sanitarie, corruzione e vulnerabilità sociale – le più evidenti.
Sono numerose le contraddizioni nella terra arcobalena dei “miracoli”. Abolite le leggi razziali, permane de facto uno sviluppo economico-sociale a sé stante della comunità bianca. Non può dirsi altrettanto privilegiata la classe operaia, come dimostrano i violenti scontri dell’agosto 2012 tra forze di sicurezza e minatori di Marikana, nell’arido deserto a circa un centinaio di chilometri dal ricco capoluogo del Gauteng – letteralmente “luogo d’oro”. Nella provincia più industrializzata dello Stato, scioperi e rivendicazioni salariali dei cercatori di platino erano sfociati in un bagno di sangue: la polizia aveva esploso colpi di pistola e mitragliate ad altezza d’uomo. Proiettili contro i civili per difendere la competitività delle compagnie minerarie. Nel mentre il colosso mondiale Anglo American Platinum minacciava il licenziamento di circa 12mila dipendenti, 34 minatori – tutti bantu – rimanevano stesi a terra, privi di vita.
Oggi, la lotta dei minatori del Sudafrica continua: discriminazione, sessismo e sfruttamento sono una realtà quotidiana. Imponenti scioperi e manifestazioni operaie hanno segnato l’intero mese di novembre. A Dunkel West, nella capitale Johannesburg dove ha sede la Northam Platinum, migliaia di persone hanno protestato contro le durissime condizioni di lavoro imposte dai padroni.
La guerra internazionale del profitto è in atto: una competizione spietata che discrimina i più deboli – indipendentemente dal colore. Subdola forma di schiavitù, è imposta con le catene del debito, riaffermata con sferzate di tasse e vessazioni. Il futuro è ipotecato. L’autocrazia del liberalismo miete nuove vittime: oggi, la battaglia dei sudafricani per conquistare una sorte migliore è appena agli inizi.
Note:
1 Nelson Mandela, Perché la libertà non è una cosa ovvia, «la Repubblica», 24 aprile 2004, pag.37. Traduzione di Anna Bissanti.
2 Ivi.
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